Joy to the world, all the boys and girls

La domenica sera in una città che ci prova a cambiare, ma rimane metalmeccanica, non prevede grandi possibilità, ma qualcosa si trova sempre. Oggi provi Goin Gospel, al famoso capannone di Grugliasco, che si ostinano a chiamarlo teatro, ma è un capannone. Una tensostruttura, per essere precisi.

Un ometto brizzolato sale sul palco, solitario. Si intravede una tastierista, e un paio di figuri che sembrano più “un jeans e na maglietta” che gospel. Quando l’ometto inizia a cantare, un fiume rosso di persone fa il suo ingresso e va a chiudere la scena, costruendo un muro di colore. Ora sì. L’ometto è il direttore.

L’acustica non sarà perfetta, il coro non sarà quello del Brooklyn Tabernacle o della Mississipi Mass, ma l’entusiasmo e l’energia che ci sono su quel palco sono contagiosi. Teoricamente il pubblico pagante dovrebbe battere le mani. Teoricamente dovrebbe anche batterle a tempo. Questo pubblico non è pagante, magari fa eccezione.

Di tanto in tanto una sagoma rossa esce dal muro, duetta, e rientra silenziosamente tra le righe. Tranne Simonetta, la signora preside, un po’ restia al rientro. Sembra divertirsi tanto a cantare, quanto a parlare con il pubblico. Ed entrambe le cose le riescono bene. Lancia il suo numero di cellulare, dichiarandosi in attesa di uno scapolo che si invaghisca di lei. Fossi veramente disperata, cara preside, l’avresti detto più lentamente quel numero!

In un momento di ilarità generale, l’ometto annuncia: “Adesso facciamo un pezzo, che è stato la sigla di un telefilm con cui quelli della mia generazione son cresciuti. Senza quel telefilm forse non farei il cantante”. Ma proprio telefilm? Non ti viene in mente quale, certo tu non sei della sua generazione, sei almeno una dopo e non puoi capire. Partono le note e capisci benissimo, ben prima del ritornello. La memoria sorride malinconica ai volti che si materializzano immediatamente davanti a lei: Leroy, ah Leroy, Coco, Doris, Bruno, la signorina Sherwood, ah Leroy. Saranno Famosi. Loro. Sarai vecchia, tu. La generazione prima della tua non aveva idea di cosa fossero i telefim e quella dopo ne ha un’idea sbagliata. Tu e il direttore siete della stessa generazione: quella che adesso o è brizzolata, o si tinge, o ha perso le speranze insieme ai capelli.

Lo spettacolo ti intrattiene per due ore abbondanti, con pezzi più e meno noti, con o senza coreografie che coinvolgano il pubblico, altro che waka waka. Quando esci, sorridere ti sembra più facile.

Randagia, consapevolmente tinta.