Eppure qualcuno nega

Un binario varca un arco e si insinua nel nulla. Termina in una stazione senza nome, una vasta banchina senza stazione. I passeggeri hanno regolarmente comprato il biglietto. Sulle loro valigie, riempite con una frettolosa ma accurata selezione di oggetti di valore, hanno scritto nome, cognome, e città di provenienza. Come i bambini che partono per la colonia, ma bambini non sono, non solo. Su quel treno non si contano le soste, non si contano le attese, non ci sono orari da rispettare, ma quel treno prima o poi arriva, come la morte. I vagoni di prima classe non sono né in testa, né in coda, neanche quelli di seconda. Esiste solo la terza, dolore e spavento. Capolinea. Tutti scendono su quella banchina senza stazione, dove non ci sono ragazze che aspettano trepidanti i fidanzati, non ci sono madri in appressione che aspettano i figli che tornano a casa, non ci sono amici in festa: ci sono sconosciuti mandati a rincuorare i nuovi arrivati “Non preoccupatevi, si deve lavorare ma si vive!”.
Fermi sulla banchina, donne a destra, uomini a sinistra. Gli abili al lavoro proseguono di qua, gli altri di là. Il lavoro rende liberi. Arbeit macht frei. Un padre di famiglia giovane e forte, di qua. La moglie magra e minuta, dai begli occhi tristi, di là, dove un vecchio silenzioso e solo con il bastone, un ragazzo storpio, e tanti altri, già attendono.
L’igiene è importante. Giusto. Prima di una doccia, ci si spoglia. Giusto. Prima di una doccia, ci si rasa i capelli. Non proprio giusto. Nella sala docce, non si vedono rubinetti. Due lucernai in alto. Da lì inizia a entrare il gas. Da lì iniziano a finire le vite di chi ha la colpa di essere ebreo, o magari zingaro, o solo di essere stato al posto sbagliato al momento sbagliato.
Tutto questo vedi quando entri a Auschwitz-Birkenau, mentri senti lo stomaco stringersi, che non sai bene cosa voglia dire, ma si stringe. Ti senti fuori luogo tu, con il tuo ridicolo zaino e la tua macchina foto. La ragazza spagnola invece sembra a suo agio mentre sorridente si fa scattare una foto su quel binario. Sullo sfondo le linee perfettamente ordinate dei resti di decine di baracche, quello che ancora rimane nostante il tentativo dei nazisti di cancellare tutto. Lei sorride e il fidanzato scatta la foto, per l’album del “io c’ero”. Tu ti chiedi quanta gente lì, proprio lì, dove lei sta poggiando il suo spavaldo sandalo Camper, abbia esalato l’ultimo respiro. Credi che un numero a tre cifre non basti. La guida te lo conferma. Circa un milione di vittime, inizialmente solo polacchi, poi da tutta Europa, anche italiani. Ma gli ebrei italiani qui erano pochi, perchè gli italiani “erano bravi e nascondevano gli ebrei”. Noi a fregare le leggi, siam sempre i primi, e non è detto poi che sia proprio sbagliato. La distesa è enorme, recintata da reti di filo spinato, ora senza corrente. E ti rifai la stessa domanda: chissà quanti hanno cercato e trovato la fine, buttandosi contro quei fili. A occhio adesso hai la risposta.
A Birkenau, delle baracche rimangono solo i camini, di cemento. In fila. Ad Auschwitz rimangono anche gli edifici, i block. Uffici dove tutto veniva meticolasemente registrato, dai biglietti del treno, ai nomi, alle date di morte.
Block 11, il blocco della morte: chi entrava qui, non usciva più. Non che gli altri edifici avessero statistica migliore. Il muro dell’esecuzione: una parete di legno e tessuto, per attutire il rumore dei colpi. Fiori e origami colorati a rendere memoria alle vittime. E il sessantenne con la pancetta si avvicina e si fa fare una foto dalla moglie, sorridendo. Un altro scatto che va a completare l’album del “io c’ero”. In un altro edificio hanno allestito una vetrina attorno a tutta una sala, dove fanno macabra esposizione di sé montagne di capelli. Molti scuri, pochi biondi. Tutti tagliati prima delle docce. Sono stati ordinatamente conservati, nei sacchi: servivano per fare tessuti. Sono molto resistenti, i capelli. Il tuo stomaco meno. Altre vetrine mostrano montagne di pettini, valanghe di scarpe, mucchi di occhiali. Tutto diviso, tutto ordinato, pettine con pettine, scarpe da donna con scarpe da donna, scarpe da uomo con scarpe da uomo: un gioco facile da insegnare ai bambini.
La visita guidata finisce e te ne esci, sai di non aver visto tutto, ma hai visto abbastanza.

Randagia, che c’è ancora chi nega.