Lacci Rossi

I primi scarponi, di cuoio con i lacci rossi. Lo zaino è gonfio: dentro c’è solo il piumino, che fa volume senza pesare. Tutti i viveri e l’abbigliamento che veramente serve sono negli zaini di mamma e papà. Corri, inseguendo le farfalle, incuriosita da genziane e anemoni, fin quando il verde dei prati sfuma nel bruno della terra: solo terra, pietre e salita, tanta salita. A due tornanti dalla fine, un signore senza un braccio, ma con un enorme sorriso, ti regala una caramella e ti dice “Vai vai, che su ci son le giostre!”.
Le giostre non ci sono. Le avranno già smontate? Ma come avranno fatto a portarle via? Tua madre seduta sullo scalino della cappella di vetta, con i fogli di prosciutto sulle gambe, cerca di dare risposta alle tue domande e alla tua fame. Rifocillata, trotterelli su quella cima grande, arida e disseminata di buchi. Sarà così la luna? Tutti guardano il panorama, tu guardi tutto, e tutti. Chissà perchè di tante gite fatte da bambina, quella è l’unica che ricordi bene. Forse per la storia delle giostre.

Cresci. Le discoteche. I ragazzi. Addio Montagna.

Cresci ancora. No, no, mica invecchi. Saluti il tacco dodici, riprendi gli scarponi, di goretex con i lacci rossi. Le passeggiate in collina diventano presto salite in montagna: la fatica è tanta, ma l’ambiente attorno ti ripaga sempre, o quasi. Ti lasci conquistare dai ghiacciai e con i ramponi d’epoca rubati a papà, di alluminio con i lacci rossi, conquisti i tuoi primi quattromila. E su tutto, torna la voglia di salire al Thabor, a vedere se le giostre nel frattempo le hanno messe. Parti da Bardonecchia, verso Nevache, Valle Stretta. L’abbondante colazione al Rifugio dei Re Magi ti dà l’energia giusta per la salita, su una mulattiera ben larga, fino alla Maison des Chamois. Una chitarra fa sentire le sue note, accompagnate da voci di bambini. E’ una colonia estiva, non di camosci: gente allegra, il ciel l’aiuta. Vada per il cielo, ma se il sole non desse una mano, forse non suderesti così tanto. Sì, sì, la fatica premia, ormai lo sai. Il percorso si addentra in una valle verdeggiante per poi trasformarsi in roccette e terra brunastra. Eccolo, quell’ambiente lunare che ricordavi! Sali, un tornante dopo l’altro, a zig-zag. Qualcuno sta già tornando indietro. Qualcuno ti supera, con la bici in spalla. Eccola, la chiesetta! Non c’è nessuno seduto sull’uscio a prepararti un panino: tua madre questi dislivelli mica li fa più. E allora un morso alla barretta energetica, che tanto va di moda ma ti lascia rimpiangere il panino, e prosegui su quell’altopiano sempre più lunare. La vera cima è poco dopo, dove lo sguardo spazia a destra e sinistra, gonfiando il cuore con uno splendido panorama. Una croce modesta ma significativa resiste ai venti da qualche decennio. Nel suo basamento è nascosto il diario di vetta su cui lasci un piccolo segno del tuo passaggio.

Le giostre? Le trovi in discesa, buttandoti come una bambina sui nastri di neve che ad inizio stagione sono ancora lì. E corri, e scivoli, cadi e ti rialzi. E sorridi, di quel sorriso che ti rimane stampato in volto, anche quando sei ormai tornata a casa. Fino alla prossima gita.