E fu sera. E fu mattina.
E una gita ti fermi al colle, e l’altra arranchi talmente che non hai neanche realizzato dove sei passata. O cambi sport, o cambi gruppo. La seconda che hai detto. “Vieni con noi che siamo più tranquilli” ti dice chi li conosce. E tu vai. Sci ai piedi il venerdì sera, alle 19. Si stimano due ore per arrivare al rifugio Pontese, parola della rifugista. Un continuo gava e buta salendo da Locana alla Diga di Teleccio, ad un ritmo che ti chiedi “Ma questi non erano quelli tranquilli?”.
E fu sera. Si preparano le luci frontali, che quelle naturali stanno finendo. In lontananza la luce del rifugio. Si sale ancora, poi la neve finisce. Ed una traccia con la frontale la segui, ma quando la neve finisce? Cerchi i bollini rossi, qualche orma, e dopo un po’ di ravanate su erba, rivedi una traccia. Sei felice di aver cambiato le pile alla frontale. Ormai son le nove passate, hai fame, hai sonno. E sto rifugio non si vede. Però che bello salire di notte. Arrivi sul dosso, e da lì si vedrà, no? Niente. Però si sente: il romantico rumore di un generatore. Lo segui, ancora un dosso, ed eccolo lì il rifugio: ragazzi ci siamo! Mara, la rifugista, ci serve cena anche se sono le dieci passate, e non stiamo a precisarle che forse è stata un po’ approssimativa con i tempi di salita, lo sa. Qualcuno che aveva già fatto cena, per compagnia, ripete.
E fu mattina. Dopo l’esperienza dell’avvicinamento al rifugio, qualche anima non si alza dalla branda. Chi ha ripreso l’uso delle gambe riparte all’alba, con la neve che sembra cambiar colore ad ogni passo, nel silenzio più totale, verso il Blanc Giuir. La valle è tutta vostra. Eccerto, pochi altri pirla si sparano quelle tre ore di salita su neve-asfalto-erba, gli altri aspettano che la strada sia aperta. Scopri che se sotto un filo di neve c’è la roccia, e ci poggi le lamine, un microsecondo dopo su quella stessa roccia ci poggerai anche il culo. E non è bello. Ma il panorama, al solito, merita la fatica. Quasi emozionante tornare tornare al rifugio con la luce del sole. Qualcuno deve tornare a valle, qualcuno avrebbe dovuto ma avvisa casa, e si ferma per la domenica, per la Punta di Ondezana. Birra, chiacchiere e pennichelle. E fu sera.
E fu mattina. Il passo è meno clemente di quello di ieri, e quando qualcuno dalla coda del gruppo, via radio, chiede “ragazzi, facciamo una sosta per compattare?”, spavaldi dalla testa rispondono “Noi siamo troppo avanti, non compattiamo più!”. Ah si? E allora vi raggiungiamo noi. O almeno ci proviamo. La salita piace, chi fa foto, chi fa sorrisi, chi fa fatica. “Randa, te la senti di andare in cima, o preferisci il colle?” Non sai come dire che di fermarti ai colli ne hai piene le scatole, ti limiti ad un serio “me la sento”, cui forse hanno fatto finta di credere. Grazie. Una serie di gucie, l’ennesimo tratto sci in spalla ed è fatta: sorriso a trentasei denti, sguardo a trecentosessanta gradi. E meno male che c’è il Cervino, che almeno una cima la riconosci anche tu!
Randagia, che adora i weekend “tranquilli”