Hai mai provato a guardare l’alba dall’alto?
6 Dicembre 2011.
Così è cominciato tutto. Quando ancora pensavo che la montagna fosse posto da tranquilli pic-nic domenicali, da spaparanzi al sole. “Tu non sai quant’è bello guardare l’alba dall’alto!”. Certo che no. Io l’alba la vedevo solo in sogno, perché mai avrei dovuto svegliarmi così presto? “Dai, prova una volta”. E proviamo, giusto perchè a dirmelo è un gran bel tocco d’uomo. “Passo a prenderti alle 5:30”. Del mattino.
Abbigliamento a cipolla, che la parola “materiale tecnico” mi sa di snob: maglietta di cotone del mercato, pile della volontaria olimpica, sciarpetta indiana che tiene tanti ricordi ma poco caldo. Bastoncini e scarponi. Cinque e trenta. Pure puntuale. Abbigliamento supertecnico lui, tutto una marca. Scarpe da corsa. Giuda faus, sarà dura. Si attraversa Torino in un attimo a quelle ore, e arriviamo a Piossasco. Buio pesto, e bisogna piazzarsi in testa questo elastico con la luce, per capire dove mettere i piedi. L’elastico con la luce è quello che i tecnici, o gli elettricisti, chiamano “la frontale”. E cammino, con il mio lampione personale. Solo il mio, perchè l’altro è avanti passi luce. Fatico, inizio ad aver caldo e a smontare la cipolla. Fa bella mostra di sé la maglietta da mercato, scollata, coperta dalla sciarpina. “Minchia Randa, non ti si può guardare! Ma il cotone manco mia nonna lo mette più. E sta roba al collo che è? Te oggi ti prendi un accidente”. Oh, sarà anche un bel tocco, ma sulla simpatia ci sarebbe da ridire. Continuiamo a salire, tranquillo lui, che parla e ride. Sfatta io, che arranco e ansimo. Un’oretta abbondante e siamo su. Sotto, la città che si sta svegliando. Mai notato che i primi a muoversi sono i furgoni della nettezza urbana, con i loro lampeggianti gialli? Intorno, l’alba sta illuminando una ad una tutte le nostre montagne: la croce bianca del Musinè, il Monviso, lontano ma inconfondibile, e tutte quelle altre di cui non so il nome, ma tutte insieme, ordinate, nel rosa del mattino hanno un fascino unico. Quasi dimentico che un’ora prima ero in città. Ho rimesso su tutti i miei strati di vestiario, e starei lì tranquilla a godermi questo spettacolo gratuito, quando mister abbigliamento tecnico confessa: “Sai questa roba tiene caldo quando ti muovi, ma da fermi no. Scendiamo?” E certo, scendiamo. In fondo sono addirittura due minuti che ho ripreso un respiro normale, perchè mantenerlo? Almeno a scendere non sarà tanto faticoso. Povera ingenua! Il volto serio di un omino verde si para davanti a noi. Un extraterrestre? No, una guardia forestale: “Dove pensate di andare voi? Sapete che c’è una battuta di caccia al cinghiale in corso? Come siete arrivati qui? Ma non li leggete i cartelli?”. Noi i cartelli li leggiamo anche, solo che se tu li metti dopo che noi siam passati, vien difficile. E quindi? “Adesso dico alla radio a questi poveri quaranta cacciatori di fermarsi, e voi svelti scendete e speriamo che nessuno vi spari addosso!”. “Certo scendiamo di corsa”. Se non gli sparano loro, quando arriviamo sotto, il “tocco d’uomo” lo ammazzo io. E via si scende. Di corsa? Di corsa, io? Io se corro cado, ringrazia che provo a spicciarmi. Sto stambecco parte, urlandomi ogni tanto “attenta qui, radice!” “attenta qui, pietra!”. Abbastanza inutile: quando alzo gli occhi per vedere dove è “qui”, quello è già 20 metri sotto, e chissà a che radice, a che pietra avrei dovuto stare attenta. Affranto, mi guarda e mi dice “Ma non puoi… correre?”. E che gli dico? “Sì potrei, ma preferisco volare?”. Nella mia affannata discesa per uscire dal campo minato, quella quarantina di cacciatori in pausa forzata si prodiga in frasi di incitamento che mai avrei immaginato “Vada tranquilla, signorina!”, “Vada piano, signorina!” “Vai tranquilla, meglio te viva che un cinghiale morto!”. Ecco questo il primo complimento della giornata. Arrivo viva a valle, fuori dalla zona minata, i cacciatori possono riprendere la loro battuta. Le mie gambe tremano, per l’ansia, per la paura, per la fatica, ma nei miei occhi si legge un chiaro “In fondo mi sono divertita”. Solo negli occhi, perchè il fiato per dirlo non ce l’ho.
E’ passato poco più di un anno. Adesso non esco alle 5:30 per andare al San Giorgio col primo tocco d’uomo che mi invita. Adesso esco alle 6:00 per salire a Superga con gli amici, per salire il sentiero 65 del parco, mentre la città si sveglia e le montagne “mi fanno ciao”. Per sentire le nostre chiacchiere che si diradano, fino ad annullarsi in profondi respiri negli ultimi metri, mentre il cielo si sta accendendo. Oggi c’è la neve. I cani delle case, la cui indifferenza ci lasciava delusi nei giorni più freddi, oggi abbaiano al nostro passaggio. La frontale non serve quasi più. Sarà per la neve, sarà perchè siamo a metà febbraio, ma l’alba oggi arriva prima. Qualcuno va su tranquillo, qualcuno con il fiatone dalla prima scorciatoia, io mi sento come su un tapis roulant farlocco: vado due passi avanti, e scivolo uno indietro. Bella la neve. Arriviamo alla Basilica. Cielo terso. La nostra Torino lì sotto, la Mole che ci solletica il naso. Quelli bravi riconoscono anche i corsi e li indicano per nome. Le montagne bianche sotto la luce rosa mi dipingono un sorriso compiaciuto. Scendiamo subito, che l’abbigliamento minimale che abbiamo va bene se ti muovi, ma se stai fermo, hai freddo. Un classico. In discesa qualcuno plana da un albero all’altro come una scimmia volante, qualcuno corre leggero sul manto bianco, io mi tengo in bilico con i bastoncini e qualche preghiera.
Scivolare sulla neve fresca prima di colazione, è un’emozione da bambini. La colazione da Gallizioli, a San Mauro, è un lusso da adulti.
Randagia, che sa quant’è bella l’alba vista dall’alto