Il battesimo del ghiaccio

Con tutto sto caldo, l’idea di pestar neve ti affascina. E la neve d’estate si chiama ghiacciaio. Nella cantina di famiglia recuperi ramponi d’epoca e piccozza arrugginita. I ramponi sono ancora di quelli con i cordini, da regolare con la chiave da 5 e il cacciavite. “Randa, io te li regolo, che aprire ste viti dopo che son state chiuse trent’anni non è facile. Ma quando te li devi mettere, stai vicino a qualcuno con i capelli bianchi, che dovrebbero conoscerli.” E ti iscrivi alla gita Cai Uget al Gonella. Il pezzo di ghiacciaio è breve, ottimo per capire se ce la fai, anche solo ad agganciarli quei ramponi.
Si parte. Destinazione Val Veny, sopra Courmayeur. Parcheggio. Zaino più pesante del solito con imbrago, corde e ambaradan vari. Lago Combal. Una cresta sulla morena, che mette alla prova gli esercizi di equilibrio delle lezioni di pilates. Vedi la terra scivolare lentamente sotto i tuoi piedi e le chiappe stringono di più che in palestra. Quando l’hai percorsa però, ti è pure piaciuta. Pochi metri dopo, un branco di stambecchi, piccoli, con la mamma, ti strappa un sorriso. Un sorriso che neanche la pietraia lunghissima che stai per attraversare ti toglierà. Non è una pietraia qualunque: sotto c’è il ghiaccio. Ogni tanto lo vedi emergere, ma soprattutto vedi quelle voragini che sembrano inghiottire le pietre. Cammini, cammini. E finalmente la neve: di fronte a te un lenzuolo bianco, il ghiacciaio del Miage. Imbrago, ramponi. Adocchia quel tizio con i capelli bianchi, che una mano te la da’ sicuro. Infatti, ramponi legati. E sembrano anche tenere. Basta non cadere in quei crepi lì. Quali? Minchia quelli? Se guardi dove metti i piedi, non li metti lì. Eh grazie. “E quei rumori come boati che si sentono cosa sono? “E’ il ghiacciaio che si rompe sotto, ma non questo, quello di là, il Dome” Ah, quello lì che è tutto un seracco, un taglio, una ruga altro che lenzuolo bianco. No, non chiedi perché quello là si rompe, mente il tuo sta magicamente intero. Ci sono domande nella vita che hai imparato a non fare. “Randa, li hai mai usati i ramponi? Allora pesta bene, e a monte,
segui le impronte”. E prega, aggiungi tu. Pesta e prega, prega e pesta, neanche te ne accorgi che è già finito. Che sollievo. Il sorriso resiste nonostante manchino ancora un bel po’ di metri di dislivello per il rifugio. Roccette e cavo di canapa: “Randa, una mano sulla roccia e una sul canapone!” Esegui, ma che fatica: il sentiero ripido tira su, e lo zaino pesantissimo tira giù. Vedi il Gonella, con la sua architettura ipermoderna sempre più vicina. E canapone e roccia, roccia e canapone si continua. Guardi il ghiacciaio tutto crepato a destra: bello. Soprattutto bello che non sia il tuo. Lassù lassù c’è il Monte Bianco. Intanto il rifugio si avvicina, o almeno ti sembra. Scultura tecnicamente modernissima, dedicata alla memoria di Francesco Gonella, un alpinista torinese che ha fondato sedici rifugi del CAI, tra cui Capanna Margherita sulla punta Gniffetti. L’arrivo è dall’ingresso di servizio: un odore di fogna che non ti aspettavi, beh almeno chi cerca il bagno lo trova subito. Non avete incontrato molta gente in salita, ma qualche ospite al rifugio c’è: abbigliamento tecnico e fisico invidiabile, di donne neanche l’ombra. Da segnalare alle amiche. Forse un po’ fuori mano. Una coca, due chiacchiere, una panoramica dalla terrazza che ti ripaga delle fatiche. O almeno ti sembra.
Si scende quasi subito, che il riposo è per la prossima vita. E ti chiedi perché uno dica “è tutta discesa” per dire che una cosa è facile, che il peggio è passato. Mica vale per tutto, qui scendere facile non è! “Allora Randa, picca a monte e becca indietro”. Puoi arrivarci a capire cosa è la picca, ma ti ci vuole un attimo a capire cos’è la becca. Alla seconda alzata di voce ci arrivi. Almeno la nomenclatura potevi studiarla. Ficca il tacco nelle impronte, la picca nella neve e scendi. Picca nella neve, tacco nelle impronte, picca, tacco e…. culo! Non era contemplato, ma viene perdonato. Ti levi prima di sentire le imprecazioni degli altri cui hai spianato le comode orme. Dopo un po’ ci prendi la mano, anzi il piede. Quei crepaccetti in fondo son lontani. Tra un pezzo di neve e uno di roccia, con un discreto brivido, ficchi la picca tra la schiena e lo zaino, e che sia a portata di mano, da sfoderare alla Lady Oscar quando serve. “Randa, non saltare sul ponte!”. Quale ponte? Non ci sono ponti. C’è solo un passaggio obbligato stretto tra i crepaccetti. Come un ponte, appunto. Anche qui, ci metti il tuo tempo a capire le istruzioni. Respira. Ficca la picca. Fai sto passo. Fatto. Respira. Minchia! Poi si fa più facile, ma perchè adesso corrono giù? Da sola non vuoi rimanere, quindi corri pure tu e fai i passi lunghi sui tagli, che tanto mica hai paura, no? Vedi dei cinquantenni tornare bambini, e tu con loro.
Il bianco finisce, il ritorno sulla pietraia sembra eterno, si inizia a sentire il relax del rientro e le boiate vengono sparate a raffica.
“Ma qui si suda in salita, e si suda in discesa!”
“sat pias nen, va al mar!” (se non ti piace, vai al mare!)

Ma se battesimo del ghiaccio deve essere, che lo sia a tutto tondo: una bella grandinatina sulle braccia nude rinfresca, quando ormai siete già al Combal. Il sorriso? rimane.

Randagia, tra ghiacci e sorrisi perenni