Dal Rifugio Borelli al Monzino Per IL Col Chasseur

Allora sabato facciamo il Col Chasseur e domenica le Piramides Calcaires“. Qui il socio ha sparato grosso: figurati se riesco a fare la prima in giornata e soprattutto sopravvivere per fare la seconda il giorno dopo. Siamo solo a metà settimana, informandosi meglio abbasserà il tiro senza che glielo debba chiedere io, altrimenti sostiene che rompo. Infatti il giorno dopo “Ho sentito Marco, dice che in un giorno solo tu non te la godresti, meglio fare in due, le piramidi poi un’altra volta“. Grazie Marco, ti voglio bene.

Leggo alla veloce la descrizione e si parla di via ferrata in salita, salita ai piedi del ghiacciaio del Brouillard, anche senza ramponi, arrivo al rifugio, poi discesa ai piedi di un altro ghiacciaio, salitina al colle e discesa per via ferrata. Cosa vuoi che sia. Parto tranquilla.

Salendo al Rifugio Borelli

In auto il socio mi spiega che la percorriamo al contrario rispetto alla descrizione di Gulliver che mi aveva indicato. Ah. Quindi le discese diventano salite. Quindi oggi non sono 1000 metri scarsi con ferratina banale, ma 1500 con la parte seria. Ah. Certo, perché le ferrate vanno fatte in salita, per ammirare meglio il panorama. Certo.

Parcheggiamo l’auto a Peuterey. Già solo il nome della località mi fa effetto: profuma di alpinismo, roccia e difficoltà estreme. L’unico Peuterey che posso permettermi è quello delle giacche e poi ancora.
Dopo quattro passi in piano il socio mi indica una parete verticale con delle cascatelle: “Dobbiamo salire di lì“. Verticale, io non arrampico bene e neanche so volare, ne avrà tenuto conto? Magari è un’illusione ottica.

Si parte con una catena cui legare la longe da ferrata: non ci sono pioli, non ci sono scalini, c’è la roccia. Il Rifugio Borelli, che poi è stato declassato a bivacco perché la posizione è considerata troppo a rischio frana per un rifugio, sembra subito là. Lo raggiungiamo nelle tre ore previste senza particolare difficoltà. Ci fermiamo a leggere il diario: qui dormono gli alpinisti che fanno la Cresta Sud dell’Aiguille Noire e stanotte due sono partiti per farla, l’hanno scritto.

Per noi qui inizia lo spettacolo: la Aguille Noire di Puterey è vicinissima, ci separa solo una pietrata. Ma come mai non vedo il nostro colle? Se mi ha detto che andiamo a un colle, ci dovrà essere un colle, quelle cose verdi tra una valle e l’altra, che raggiungono anche le famiglie con cani: dov’è il nostro colle? Ed ecco che il socio mi legge nel pensiero “Il colle dovrebbe essere quello” e mi indica una fessura aguzza tra due guglie aguzze. Qui le famiglie con cani non arrivano.

Qualche blocco di ghiaccio tra noi e il fascino della Aiguille Noire

Siamo ai piedi di questo “irto colle”, il cavo è più su di qualche metro. “Nini, vuoi la corda?” Ma sono solo cinque metri, quello che basta per cadere, ma sono solo cinque metri, mi ripeto e non è un 9a, sarà un secondo grado se lo è quindi mi faccio coraggio e vado. Commetto l’errore di guardare giù, ma vado. Qui l’ambiente mi fa effetto: la pietraia non importa, le rocce verticali che abbiamo risalito per il rifugio non importano, ma la guglia lì sulla mia testa, che si staglia sottile e aguzza lei sì che importa. Penso alla mia amica Cristina che l’ha fatta l’anno scorso, lei che va praticamente sempre e solo in bici e ce l’ha fatta. Penso a Elena che la paragonerebbe a una passeggiata alla Mandria, penso che se il socio mi porta è perché ce la posso fare e allora via, non pensiamo tanto e andiamo su: un appiglio per la mano qui, un appoggio per il piede lì e avanti così.

Sbuchiamo in quella fessura aguzza chiamata Col Chasseur e che spettacolo! Mi siedo, innanzitutto perché è finalmente possibile e poi per l’effetto ottico: a guardare le guglie affilate e vicine mi gira la testa peggio che un quadro di Escher. Il socio salterella su tutti gli spuntoni che trova a fare foto e sorridere di gioia, io prendo fiato e spero di avere ancora la concentrazione per scendere. Dopo i primi passi su roccia, la discesa diventa su erba, verticale ma erba: “Ma butta giù sti piedi!” mi urla. “Alberto qui scenderebbe di corsa tenendosi solo come al mancorrente della metro e tu stai lì appesa con le chiappe e con i denti“. Effettivamente. La concentrazione è andata scemando, la fatica crescendo, per questo forse all’ultima disarrampicata in un facile camino, proprio l’ultimo passaggio che poi tutto sarebbe finito per il meglio, sbaglio un passo, pendolo e cado di una metrata buona, ammortizzando con la chiappa sinistra sulla roccia: meglio una chiappa che un’articolazione. Nulla di grave, intanto il socio allestisce una doppia, che qui non si capisce come giocarcela: la ferrata è finita, ma il nevaio è sopra di noi e non vorremmo finirci ulteriormente sotto.

Si cala lui, mi calo io, e poi? Lui con agile balzo e due metri di gambe è già sopra la neve, io lo guardo da sotto, sconsolata. “Non importa che tecnica usi, punta i piedi dove riesci e salta su. Va bene anche la tecnica a pancia di balena che usi per salire in canoa“. Nonostante le gambe corte con due passi sono sopra anche io, non ho neanche dovuto usare la pancia.

La neve si passa veloce e poi? Poi si vede il rifugio, ma è oltre una morena infinita, di un ghiacciaio morente. Sembra una pietraia, ma c’è il ghiaccio sotto le pietre. Sai che figura finire in un crepaccio per aver sbagliato strada, che poi sui social ti mettono la notizia di fianco al milanese in infradito sul Rosa? C’è poco da scherzare, sono le 16 passate. Il rifugio è solo là, ma arrivarci non è banale. Seguiamo una santa traccia GPS, ma i ghiacciai son diversi di anno in anno, serve solo per dare la direzione, poi ci sono i buchi e i guadi da affrontare. Poco male: li affrontiamo uno alla volta.

Sulla morena verso il Rifugio Monzino

Sono le cinque quando finalmente approdiamo al sentiero: è fatta! Sarebbe stata fatta, se non avessimo, per leggerezza e fretta di finire, incastrato in malo modo i bastoncini nello zaino per percorrere un brevissimo pezzo di ferrata: un bastoncino, offeso, decide di ribellarsi, si sfila dallo zaino e cade nel dirupo. Mentre il socio scende a guardare dove è finito gli urlo “Magari prendi l’altro prima che cad….” troppo tardi, come un siluro ecco che il secondo segue il primo e lo supera. Tentiamo una doppia per recuperarli, ma uno lo prendiamo l’altro rimarrà là per sempre.

E così sono le 18, l’ora entro cui il rifugista ci aveva chiesto di arrivare: il socio arriva, io arranco a seguire. Ma almeno siamo in tempo, nessuno chiamerà i soccorsi per noi.

Al rifugio, mi sento una vera merendera. Qui sono tutti alpinisti seri, si capisce dall’ora delle colazioni: all’una, alle tre e alle sei. Il silenzio alle 21:30. Chiediamo ad una guida se ci sono gite facili in zona e lui ci conferma che l’unica facile l’abbiamo già fatta. Se vorremo tornare l’unica è rifarla, magari nell’altro senso. I due olandesi al nostro tavolo oggi hanno fatto l’Aiguille Croux, altri domani la Noire o il Brouillard, già proprio quello della cresta dove da una decina di giorni sono scomparsi i due alpinisti torinesi, il pensiero va a loro e torna indietro, come sempre, a pensare e a riflettere.

L’alba sull’Aiguille Noire

La stanchezza mi porta in branda ben prima dell’ora del silenzio, ringrazio il mio meraviglioso socio, poggio la testa sul cuscino e chiudo questa giornata da incorniciare.

Randagia, stanca e felice

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